La mia teoria sul perché Clubhouse sia stato un fuoco di paglia ha il suo fondamento studiato, ragionato e testato. Il caso studio del flop di Clubhouse ti permetterà di evitare di fare errori importanti se stai lanciando un prodotto che desideri diventi parte integrante della vita delle persone, in una parola un’abitudine.
Probabilmente se stai leggendo questo articolo è perché anche tu eri tra quelle persone che durante i primi mesi del 2021 morivi dalla voglia di trovare qualcuno che ti cedesse un invito per accedere alla piattaforma.
Io ero tra quelle.
Mi presento: sono Elisa Tomassetti, content creator, co-creatrice della prima Web Serie mai realizzata sull’Umbria dal nome Umbria Inside, ho collaborato e collaboro con piccole e grandi aziende quali Boing Tv, Metodo InForma e Laboratorihur. Laureata in comunicazione dal 2017, mi formo costantemente con corsi di formazione firmati Marketers e Luca La Mesa.
La mia teoria trova fondamento su un libro che ho finito di leggere qualche giorno fa e che si intitola Creare prodotti e servizi per catturare i clienti (Hooked) di Nir Eyal.
Tutti, me compresa, siamo rimasti agganciati da Clubhouse perché:
1) era la novità del momento di cui tutti parlano;
2) gli ingressi su invito (scarsità) sono stati un’arma micidiale che ha risvegliato il cacciatore che è in noi per entrare a tutti i costi a far parte di quella nicchia. Qui subentra anche la FOMO (fear of minnsing out) ovvero la paura di rimanere esclusi da quel contesto in cui tutti sembravano divertirsi.
La novità fa parte di quello che l’autore chiama trigger relazionale, ovvero l’azionatore del comportamento dettato dal passa parola, la FOMO, invece, rappresenta la motivazione necessaria per attivare il comportamento “scaricamento app”. Siamo nella fase che l’autore del libro chiama Azione. Da lì bastava trovare il modo di entrare (abilità) e sperare che qualche tuo conoscente, già all’interno di Clubhouse, ti avesse permesso di entrare. Tutto ciò è riassunto in una formula che lui sintetizza così:
C=MAT
C= comportamento M=motivazione A= abilità T= trigger
Dunque, passata la fase trigger e la fase azione, arriva la fase che Eyal chiama ricompensa variabile. Si tratta di una vera e propria ricompensa che ci aspettiamo dopo aver compiuto l’azione.
Sono finalmente dentro Clubhouse e che succede? Entro nelle stanze di mio interesse e se becchi l’orario giusto trovi anche oratori di un certo calibro tipo Dario Vignali, Montemagno ecc…altre volte entri in stanze di gente logorroica che non fa altro che parlare di quanto sia figo Clubhouse. Va beh, le prime volte lo accetti.
Abbiamo passato, me compresa, intere giornate a saltare da una stanza all’altra a caccia di ricompense che a volte arrivavano altre volte no. Che cos’è che si cercava su Clubhouse? Fondamentalmente quello che si cerca in tutti gli altri social: farsi notare, sentirsi accettati, attraenti e importanti e migliorare noi stessi ascoltando i contenuti di valore degli altri.
Il fatto è che ascoltare ed assorbire come spugne dagli altri è impegnativo, ma non quanto potrebbe esserlo parlare in una stanza con centinaia di persone dal vivo. Farsi notare ed aumentare la propria notorietà poteva essere alquanto più difficile rispetto ad un altro contesto in cui prima di pubblicare qualcosa c’è un lavoro di fino da non sottovalutare. Lì invece no, era tutto buona la prima.
Partiamo da un presupposto: in tutte le piattaforme c’è un consumer e un prosumer (colui che consuma i contenuti e colui che crea i contenuti) e bene, da qui subentra il primo problema di Clubhouse.
Primo problema:
non c’è un sistema di ricompensa per i creators (prosumers), che dunque si sono fatti la fatidica domanda: ma a me cosa me ne viene di stare a fare speech qui, quando in realtà su YouTube ho la possibilità di monetizzare il mio tempo? A questo ne è derivata una conseguenza. Prendere parola all’interno della piattaforma presuppone una certa predisposizione al public speeking e un discreto bagaglio culturale in una determinata disciplina. Una volta scomparsi coloro che portavano valore vero alla piattaforma, i consumers, che non avevano argomenti così interessanti di cui parlare, si improvvisavano oratori mettendo in piedi stanze che, passatemi il termine, erano come le scorregge: piacevano solo a loro che le facevano. Altri facevano puro intrattenimento, ok , ma questo non poteva giustificare il mio tempo speso all’interno delle loro stanze.
Vediamo che allora quei umili consumer, che non si azzardavano a mettere in piedi stanze perché riconoscevano di non aver argomenti interessanti di cui parlare, hanno dichiarato la ritirata perché con la scomparta dei veri prosumer era anche scomparsa la loro ricompensa variabile, la ricompensa del sé, ovvero la ricompensa personale che migliora noi stessi.
Secondo problema:
che, secondo me, è anche quello più importante da tenere in considerazione qualora si voglia andare a creare un prodotto che si pone come obiettivo quello di diventare un’abitudine nella vita delle persone come ora lo sono Facebook e Instagram (per non citare tutti gli altri social di cui conosciamo bene la fama). Sto parlando di quello che il ricercatore Dan Ariely chiama “effetto IKEA”.
Tutti conosciamo il più grande rivenditore di immobili che vende anche oggetti per la casa a prezzi convenienti e pronti per essere assemblati. Il fatto è che IKEA fa lavorare i propri clienti, li spinge ad investire fatica e tempo nel montaggio dei propri prodotti. Un po’ come quello che fanno gli utenti dei social: creano contenuti, arricchiscono quindi le piatteforme stesse (ed è per questo che YouTube e Facebook ricompensano i creators) e forniscono quella motivazione che spinge gli utenti a tornare.
Questo è quello che l’autore di Hooked chiama fase dell’investimento. Il prodotto si arricchisce mano mano che viene utilizzato. Clubhouse trova forza solo quando al suo interno ci sono gli utenti. Il prodotto rimane tabula rasa nel momento in cui non è popolato. Nessuna registrazione, nessuna traccia di vita passata che possa spingere gli utenti a tornare a consumare nuovamente quei contenuti.
Negli altri social troviamo uno storico, un archivio, se vogliamo, di quello siamo stati e di quello che sono stati gli altri. È in questo modo che loro si sono arricchiti e allo stesso tempo noi ci siamo affezionati.
Dunque abbiamo visto come, delle quattro fasi (trigger – azione – ricompensa – investimento) necessarie perché si attivi l’abitudine di un determinato prodotto nella nostra vita, Clubhouse soddisfi ad oggi solo le prime due, tre per i consumatori che almeno all’inizio potevano contare sugli interventi dei grandi oratori.
Dopo questa analisi penso che anche tu possa trovare, a modo tuo, delle soluzioni affinché quest’app possa tornare a funzionare al meglio. Potrebbe essere un buon esercizio per non ripetere gli stessi errori nei propri progetti personali.
Il libro di Nir Eyal approfondisce con studi e ricerche il percorso che lo ha portato a teorizzare questo ciclo di 4 fasi che deve ripetersi più volte affinché il prodotto diventi abitudinale nella vita del consumatore finale. Ne consiglio la lettura affinché ognuno passa trarne i propri spunti e le proprie conclusioni.